Ricordo perfettamente la prima volta che ho letto Marina Jarre. Era l’estate del 2009, avevo scelto dei libri a caso dal mucchio sulla scrivania di mia madre e ora sul treno notturno mi trovavo con un libretto sottile che sembrava parlare di cose che di solito m’interessano – guerra, russi, morte e distruzione. Non avevo mai sentito nominare l’autrice e anche mia madre la conosceva soltanto perché una sua tirocinante aveva fatto la tesi su di lei – valdese, molto anziana, viveva a Torino come noi (i torinesi che leggono hanno una fascinazione morbosa per gli scrittori che vivono a Torino). Il piccolo libro s’intitolava Il silenzio di Mosca.
La prima parte era la decostruzione di un’immagine di guerra che aveva a lungo ossessionato l’autrice dopo che qualcuno gliel’aveva raccontata (i soldati tedeschi catturati a Stalingrado che sfilavano davanti alla folla silenziosa a Mosca); la ricerca di documenti in russo, le versioni discordi nelle testimonianze, infine la scoperta dell’imperfezione congenita in una scena tanto perfetta, tanto iconica; il tutto diventava un saggio personale su menzogna, memoria storica, fallacie del ricordo e finzione narrativa. Del libro mi piaceva l’andamento divagante, freddo e intelligente, la struttura atipica, la stranezza, la rabbia sotterranea che intuivo, la precisione implacabile con cui parlava di cosa significasse invecchiare e avvicinarsi alla morte. C’era in quel libro finale, minore, qualcosa che sfuggiva alle mie categorie e si imponeva alla mia attenzione.
Errando tempo dopo in Internet, digitai a caso “prigionieri tedeschi” e, sotto il titolo La mistica dell’anima russa, trovai subito la pagina di un’autobiografia in cui un ragazzino undicenne raccontava proprio l’episodio che Pavel mi aveva riferito. Il ragazzino era il poeta Evgenij Evtušenko; tornato con la mamma a Mosca nell’estate del 1944, aveva visto sfilare circa 25.000 prigionieri tedeschi tra il silenzio totale degli abitanti della città. […] Il racconto letto riferiva però di un avvenimento interamente diverso da quello che mi ero immaginato, se si esclude la cornice. […] Il ragazzino undicenne lo aveva bensì descritto mentre gli astanti, dopo gli urli di scherno verso gli ufficiali, impietrivano alla vista dei nemici infine vinti, ma il poeta che sarebbe diventato lo aveva effettivamente subito interrotto con il sopravvenire della donna in stivaloni di gomma. Dal fazzoletto avvoltolato era sbucata insieme col pezzo di pane l’anima russa, la misericordiosa anima russa. L’anima russa alla quale, invero, non occorrerebbero mai altri aggettivi. Il mio racconto mi era stato strappato di mano.
Altri libri sono venuti negli anni, alla spicciolata, e sempre per rinvenimenti casuali: nella biblioteca di un amico, su una bancarella di libri usati, su eBay. Erano uno più bello dell’altro, si trattasse di romanzi o di memoir. Come poteva essere accaduto che una scrittrice così straordinaria e originale fosse sparita quasi del tutto? Non che non sia successo ad altri: penso a Wilcock o a Manganelli, che per fortuna Adelphi sta ripubblicando da tempo. Rispetto a loro, Jarre è più “leggibile”, poco interessata alla sperimentazione estrema; sarebbe stato più facile, almeno in teoria, che incontrasse un pubblico più vasto di una nicchia di appassionati.
L’anno scorso Claudio Magris si interrogava sui motivi di questo silenzio incomprensibile. Ci sono molte spiegazioni possibili, nessuna sufficiente: il “duro riserbo” di Jarre, per dirla con Magris; la sua lontananza dai circolini letterari, il fatto che negli ultimi anni si fosse occupata quasi solo di teatro e di storia dei valdesi. Non a caso, i pochi articoli usciti dopo la sua morte l’estate scorsa hanno parlato di lei come della “narratrice dell’epopea valdese”, magari menzionando i libri autobiografici dove veniva evocato lo sterminio degli ebrei di Riga. Ma Jarre non era soltanto questo. Il territorio della sua scrittura è infinitamente più vasto, più complesso e più enigmatico: è il mondo di un grande scrittore, e come tale si sottrae a ogni etichetta identitaria o testimoniale. Quello che vorrei fare qui è tentare di tracciarne una mappa, incompleta e sommaria, ma che dia un’idea di quanto l’esperienza di leggere Marina Jarre sia eccitante, sorprendente e meravigliosa.
Era nata Marina Gersoni a Riga, nel 1925, figlia di Clara Coïsson, un’italiana delle valli valdesi che insegnava all’università di Riga e che, tornata in Italia, sarebbe diventata un’importante traduttrice dal russo per Einaudi (avrebbe tradotto Propp, Bulgakov, Tolstoj, Dostoevskij e molti altri), e di Samuel Gersoni, un lettone ebreo. La sua prima lingua fu il tedesco: avrebbe imparato l’italiano dopo il 1935, quando i suoi genitori divorziarono, con grande melodramma, e la madre portò lei e la sorella minore in Italia, dove sarebbero state cresciute dalla nonna a Torre Pellice. Il padre, un personaggio eccentrico, teatrale e misterioso, rimase a Riga, dove ebbe più tardi una bambina da una relazione con un’infermiera tedesca che li avrebbe lasciati dopo l’invasione nazista della Lettonia. Sarebbero morti tutti, lui, la bambina e gli altri della famiglia, nelle stragi di ebrei nei boschi di Riga del novembre-dicembre 1941. Su questo buco gigantesco, e sul padre irresponsabile e sentimentale, Jarre tornerà in due libri capitali: I padri lontani, Einaudi 1987, e Ritorno in Lettonia, Einaudi 2003.
Il primo è un’autobiografia. Ma è un’autobiografia nel modo in cui lo sono Parla, ricordo di Nabokov o Gli anni di Ernaux, di cui peraltro, mi hanno fatto notare di recente, è progenitore nella struttura (il montaggio serrato di immagini separate che vanno a comporre un enorme quadro organico). E secondo me andrebbe letto da chiunque si occupi di nonfiction narrativa oggi, in Italia – e anche fuori, ma, come ho scoperto da Magris, altrove lo sanno già. Su tutte le cose della sua vita Jarre posa lo stesso sguardo distaccato, straniante e lievemente ironico: le minute tragedie dell’infanzia, la guerra e la Resistenza a cui assiste da spettatrice guardinga, la maternità e la scrittura, il lavoro come insegnante di francese a Torino e la città stessa nelle sue trasformazioni nel tempo. Il tempo, appunto, è uno dei temi che innervano e legano tutti i frammenti, così come la mancanza di appartenenza, di “patria”, a volte fieramente perseguita, a volte più sofferta, a volte semplicemente registrata come dato di fatto. Un’estraneità che sente anche rispetto al mondo valdese, che pure è in parte il suo: “Non c’era legame tra me e quel mondo che mi restava esteriore. No, le povere e pietrose case in ombra, le quattro creste affilate, la donna dalla voce alta, chiara, segnata dalle erre, non mi erano parenti. La loro storia non mi precedeva, non ero venuta da quella”.
Ho passato un’estate a Torino con un libro di botanica. Alle cinque del pomeriggio uscivo e andavo lungo la recinzione dei giardini del centro e della Crocetta, camminavo nei giardini pubblici e intanto riconoscevo gli alberi confrontandoli con le indicazioni e le illustrazioni del libro. […] Mentre camminavo per i luoghi, strada dopo strada, sui marciapiedi sporchi di polvere, carte, gelati squagliati, preservativi, siringhe, escrementi di cane, la strada finiva col diventare il luogo, l’unico possibile, indistinguibile dagli altri luoghi, e la gente ed io con loro sul marciapiede, indistinguibili tra di noi. […] Opinabili le cabine telefoniche, copia esatta delle macchine di trasmigrazione temporale o spaziale dei film fantascientifici, ovvie appunto come cabine telefoniche, a testimoniare anche loro la necessità quotidiana, la naturalezza di simili trasmigrazioni. Questo è il luogo senza nome, uguale ad altri luoghi e il mio tempo, uguale al tempo degli altri. Non fuggirò più.
Ritorno in Lettonia è il più celebre e dibattuto tra i libri di Jarre (ma comunque fuori catalogo), che giustamente Alberto Cavaglion su Doppiozero definisce una riscrittura dei Padri lontani. Qui, infatti, l’ormai anziana Jarre torna in Lettonia insieme al figlio, per la prima volta da quando l’ha lasciata a dieci anni. E prende infine su di sé quel padre ripudiato e la sua fine mostruosa, nonché quella storia ebraica a cui è altrettanto estranea e altrettanto indissolubilmente legata. È un libro potentissimo, che esplora le profondità vertiginose del senso di colpa e della rimozione con l’intransigenza e il disgusto per l’enfasi che sono una costante nella prosa di Jarre. Ed è ancora una volta un testo anomalo, che fa per esempio un uso molto interessante dei documenti, nel senso esatto in cui ne parlava Danilo Kiš in un’intervista che appare nella raccolta Homo poeticus: “Per quanto mi riguarda, personalmente credo nel documento, nella confessione, nel gioco dello spirito. Non esiste l’uno senza l’altro, è una specie di Santissima Trinità”. Questa magica, sapiente mescolanza delle carte è la perfetta definizione della nonfiction di Marina Jarre.
Poi ci sono i romanzi e i racconti. Rubando la definizione che Franzen usa per Alice Munro, si può dire con una certa esattezza che Jarre è una “distaccata fornitrice di piacevolissime esperienze private” (si parla di piacere del lettore, naturalmente). In effetti, per quanto la sua misura sia il romanzo lungo, Jarre somiglia per certi versi sia a Munro che al primo fra tutti i fornitori di esperienze private: Čechov. Nelle sue storie, in genere, non ci sono grandi accadimenti o eventi roboanti. Sono storie piccole di persone comuni; e come in Munro e Čechov, gli eventi minimi delle loro esistenze individuali assumono una portata immensa, che riverbera a lungo in chi legge assumendo sempre più intensità, finezza e mistero con il passare del tempo, unicamente per il modo in cui vengono raccontati. Ho già parlato della precisione di Jarre, ed è questa la sottile connessione che la unisce agli altri due scrittori: l’esattezza asciutta e priva di giudizio con cui sa registrare i propri sentimenti e quelli dei suoi personaggi. Anche i più strani, profondi o incomprensibili; e quelli che suscitano vergogna. Ci sono molti sentimenti indicibili, oscenamente naturali, nei libri di Marina Jarre, fermati in pagine magnifiche da cui è difficile estrapolare citazioni che ne dicano la bellezza complessiva. Come spesso accade con quelli davvero bravi, la sua non è una scrittura aforistica: il respiro vero della sua prosa si trova nel tessuto del testo, nell’architettura piena della pagina o del capitolo intero.
A volte le storie minute dei suoi personaggi incrociano la Storia: è il caso del delizioso La principessa della luna vecchia, uscito per Einaudi nel 1977, romanzo eroicomico su una scalcagnata famiglia di comunisti torinesi raccontata dalla voce irresistibile del figlio undicenne, che ha come sfondo i mesi che precedono il referendum sul divorzio del 1974 ed è uno dei pochissimi libri che raccontano (in chiave satirica, ma affettuosa) le persone che fecero il movimento di quegli anni. O del racconto «La fotografia», in Galambra. Quattro storie con fantasmi (Bollati Boringhieri 1987), che parte dal lento e freddo resoconto di una vacanza coniugale in una cittadina immaginaria per trasformarsi in una delle cose più belle mai scritte in narrativa sulla lotta armata italiana e le sue conseguenze.
Ed è soprattutto il caso di Un leggero accento straniero, il primo romanzo. Uscito nel 1967 come Monumento al parallelo per una piccola casa editrice, e poi ripubblicato da Einaudi nel 1972 con il nuovo titolo e alcune parti riscritte, ha come protagonista un’ex Waffen SS, Klaus Boehr, che ha partecipato agli eccidi di massa in Europa orientale e che dopo la guerra si è rifatto una vita in incognito come professionista svizzero in una grande città industriale italiana – Torino, sempre lei, ambigua e bifronte come il suo abitante segreto. Come nelle Benevole di Littell quarant’anni dopo, è Klaus stesso a raccontare la sua vita e le sue azioni, per le quali, ammette candidamente, non prova rimorsi, senza sapersi spiegare quando quella capacità sia caduta. Alla sua – come chiamarla? Confessione? Autodifesa? Meglio: gelida rielaborazione estetica di se stesso, si alterna la storia presente di un gruppo di giovani amici della Torino borghese, che finirà per intersecarsi con la sua.
Questo contrappunto, che può sembrare solo tecnico, contiene in realtà, come in un gioco di scatole cinesi, altri nodi narrativi articolati, altri paesaggi, altri interrogativi. Arriva il momento in cui il corto circuito potrebbe scattare e la verità essere svelata; ma quella che potrebbe diventare una banale svolta poliziesca prende una strada inaspettata, come sempre in Jarre. E pone domande fondamentali – la più feroce: sono davvero le circostanze a trasformarci in assassini meccanici, come insinua Klaus nel tentativo di scaricare su tutti il suo barile di sangue e cervella? Nonostante qualche lungaggine e alcuni passaggi un po’ invecchiati, il libro è vivo per dettaglio psicologico, costruzione dei personaggi, dialoghi, ironia. Forse era troppo presto per leggere la voce narrante di un nazista non pentito, forse la sua forma era troppo “tradizionale” in un momento in cui a dominare le scene erano le neoavanguardie, chissà.
Eppure, non vi sembra che ci sia in tutto questo un progredire fatale? Un anello si salda all’altro, fino al lillà bianco, fino al ragazzino russo, fino al campo cecoslovacco? Tutto sembra previsto da una regia impeccabile. Tutto fuorché il gesto che non compii, che non mi venne in mente di compiere, l’inutile, grottesco gesto di puntarmi la pistola alla tempia, rinunciando a capire. “Morto sul campo, un altro prende il suo posto”. Se a un dato momento vi fu un errore, o di scelta o di valutazione, trovatelo voi, signori. Io non riesco a scoprirlo e non riesco nemmeno a vedere chi o che cosa m’abbia mutilato così. Come un mostro antidiluviano, non ho che i monconi di qualcosa che serviva ad azioni che non so. Ma vi giuro che non riesco a trovare il punto, o il momento o la persona. Tutto fu chiuso ferreamente fra le invalicabili pareti della mia sorte. E della sera d’estate non ricordo il nome della ragazza, ma ricordo il frusciare dell’avena al vento, vicino a noi; un immenso, sottile fruscio lunare. Com’è possibile che io abbia sbagliato più degli altri?
C’è un ultimo romanzo di Jarre di cui voglio parlare qui, completamente diverso dal precedente. È uscito per Einaudi nel 1971 con una copertina di Roy Lichtenstein e un titolo bruttino: Negli occhi di una ragazza. Ed è forse il più bel libro di Marina Jarre. Racconta una storia piccola, ancora una volta: quella di Maria Cristina, una ragazzina di tredici anni colta nel momento in cui sta diventando una persona. L’anno è il 1969; lei vive in una famiglia modesta, con un padre incapace di comunicare, una madre malata e un fratello maggiore molto impegnato a fare la rivoluzione. Maria Cristina viene considerata stupida e così si considera lei stessa. Il suo sguardo sul mondo somiglia a quello della protagonista di Deserto rosso di Antonioni: un regista molto vicino a Jarre per toni, stile e storie: non mi ha sorpreso, mentre facevo ricerche per questo pezzo, scoprire che le aveva proposto un progetto per trarre un film dal suo Viaggio a Ninive. “C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice”: la frase del personaggio interpretato da Monica Vitti vale anche per Maria Cristina, che preferisce le cose alle persone, più facili da amare, più comprensibili, meno spaventose. Del resto gli altri hanno già deputato Maria Cristina, in quanto femmina, esclusivamente al fare. Ma il suo ripiegamento su di sé deve interrompersi quando accadono due eventi, due scomparse che la costringono ad avere a che fare con l’imprevedibilità della vita umana e a compiere scelte.
La trama è tutta qui. Dietro la facciata di ingannevole semplicità ci sono tante cose: la classe, la stolidità del potere costituito, il destino subordinato delle donne, la politica come paravento emotivo, la solitudine tra membri della stessa famiglia, la morte. Ma nessuno di questi elementi diventa mai ideologico; questo non è un romanzo a tesi o un’operetta morale. È il Bildungsroman di un personaggio unico, Maria Cristina, che si innalza gigantesco fra i molti e affascinanti outsider dei libri di Jarre.
Si possono amare anche le cose. E lei aveva amato la castagna perfetta, cotta fin nel suo cuore giallognolo e s’era richiusa nel silenzio striato di odore di fumo e così non aveva più amato i suoi familiari radunati nella cucina della nonna intorno al giovane zio con la sua giovane sposa. E forse, se si ripeteva la magia, non avrebbe più amato Eliana e neppure Roberto. Visto che non l’amavano e questo la rendeva tranquilla ma le faceva anche male. Sul punto d’addormentarsi mise fuori la mano dalla coperta. Poi sognò; sognò di alzarla verso il buio e dal buio scese un’altra mano a toccare la sua, e non era di nessuno, né della mamma, né del padre, né di Eliana o di Roberto. Scese dal buio silenzioso odorante di fumo, rastrellato da un rastrello non guidato, ed era una mano calda e forte. Si rese conto poi che quella mano uscita dal buio era certamente la propria: dormendo s’era stretta la mano sinistra con la destra, quasi avesse avuto paura che qualcosa le sfuggisse nel sonno.
Tutto il libro passa attraverso la lente della sua visione, bizzarra, innocente ma molto più attenta alla natura delle cose e dei fatti di quella di chi la circonda, e lo straniamento formale funziona alla perfezione. Ci sono innumerevoli scene indimenticabili, dove la prosa sempre bellissima, levigata e severa si apre in quelle osservazioni piene di echi di significato in cui Jarre è maestra. Questi tumultuosi, inaspettati scarti nell’irrazionale, sotto le spoglie di una cronaca austera; questi soprassalti di emozione violenta che arrivano da una pendola nella casa di un ricco, da una castagna, da un occhio visionario dipinto sulla fronte di una bambina; è qui che risiedono il genio, la felicità di questo libro meraviglioso. Negli occhi di una ragazza esiste ancora, ristampato ormai molti anni fa da una piccola casa editrice, Calypso. Forse sarebbe ora di farlo tornare in una nuova veste, di ridargli il posto e l’attenzione che merita.
Sono stata al funerale di Marina Jarre, a luglio. Uno dei figli, credo quello che l’ha accompagnata in Lettonia, parlando di lei ha ricordato una scena descritta nei Padri lontani. Dopo la separazione dei genitori, lei e la sorella erano state nascoste dalla madre in un castello tedesco e il padre era venuto a cercarle, battendo alla porta per ore, ma loro, fedeli alla madre, non gli avevano aperto. Ora, diceva il figlio, spero che tu possa aprire quella porta e corrergli incontro. Sono state dette molte cose. Qualcuno ha letto un brano dal Silenzio di Mosca, il suo finale, in realtà. C’è dentro un’espressione di Bonhoeffer (la “cara terra di Dio”). Solo più tardi ho pensato: è giusto così. L’inizio, la fine.
I nomi si semplificano o scompaiono. Il mare di Sardegna che ogni mattina, appena alzata, ero solita contemplare da dietro il finestrone del nostro soggiorno non avrà più nome, sarà il mare e basta. Il mio luogo e il mio tempo sulla cara terra di Dio staranno in un cortile, povero, nitido, odoroso di fumo di legna. Tutto il resto, di là, continuerò a immaginarlo.
I remember perfectly the first time that I read Marina Jarre. It was the summer of 2009, I had chosen at random some book from the pile on my mother’s desk and now on the night train I found myself with a thin little book that seemed to speak of things that usually interest me—war, Russians, death and destruction. I had never heard of the author and even my mother knew her only because one of her interns had done her thesis on her—Waldensian, very old, she lived in Turin like us (the Turinese that read have a morbid fascination for writers that live in Turin). The little book was entitled Il silenzio di Mosca (The Silence of Moscow).
The first part was the deconstruction of a war image with which the author had long been obsessed after someone had told her about it (the German soldiers captured in Stalingrad had paraded before the silent crowd in Moscow); the research of documents in Russian, the discordant (conflicting) versions of the testimonies, finally the discovery of the congenital imperfection in an almost too perfect scene, too iconic; all of it became a personal essay on lying, historical memory, fallacies of memory and narrative fiction. I liked the digressive progress of the book, cold and intelligent, the atypical structure, the strangeness, the subterranean rage that I intuited, the implacable precision with which she spoke about what it meant to grow old and approach death. There was in that final minor book something that escaped all my categories and imposed itself on my attention.
Searching some time later on the Internet, I typed at random “German prisoners” and, under the title The Mystique of the Russian Soul, I found immediately the page of an autobiography in which a boy of eleven years old recounted the episode that Pavel had just reported to me. The boy was the poet Evgenij Evtušenko; returned with his mother to Moscow in the summer of 1944, he had seen the parade of about 25,000 German prisoners among the total silence of the inhabitants of the city. […] The tale reports however an entirely different event from what I had imagined, if one excludes the frame. […] The boy of eleven had however described it while the bystanders, after yells of derision towards the officials, were petrified at the sight of the enemies finally vanquished, but the poet he would become was effectively interrupted by the arrival of the woman in rubber boots. From the wrapped handkerchief emerged together with the piece of bread the Russian soul, the merciful Russian soul. The Russian soul to which, indeed, they would never need other adjectives. My story had been torn from hand.
Other books have come over the years, bit by bit, and always by casual discovery: in a friend’s library, on a used bookstand, on eBay. Each one was more beautiful than the other. They were novels or memoirs. How could it have happened that a writer so extraordinary and original had almost entirely disappeared? It wasn’t that it hadn’t happened to others: I thought of Wilcock or Manganelli, that luckily Adelphi has republished for some time. In respect to them, Jarre is more readable, less interested in extreme experimentation. It would have been easier, at least in theory, for her to encounter an audience wider than a niche of impassioned readers.
Last year Claudio Magris questioned the motives for this incomprehensible silence. There are many possible explanations, none of them sufficient: the hard reserve of Jarre, as Claudio Magris calls it; her distance from literary circles, the fact that in the last years she was almost solely occupied with theatre and stories of the Waldensian people. Not by chance, the small articles that came out after her death last summer spoke of her as the “storyteller of Waldensian culture,” perhaps mentioning the autobiographical books where she evoked the extermination of the Jews of Riga. But Jarre was not only this. The territory of her writing is infinitely more vast, more complex, and more enigmatic: it’s the world of a great writer, and as such it evades every identity or testimonial label. What I would like to do here is attempt to trace a map of it, incomplete and rough, but that gives an idea of how much the experience of reading Marina Jarre is exciting, surprising, and wonderful.
She was born Marina Gersoni in Riga, in 1925, daughter of Clara Coïsson, an Italian of the Valdese (Waldensian) Valley who taught at the University of Riga and, returned to Italy, became an important translator of Russian for Einaudi (she translated Propp, Bulgakov, Tolstoy, Dostoevsky and many others), and of Samuel Gersoni, a Latvian Jew.
Her first language was German: she would have learned Italian after 1935, when her parents divorced, with great melodrama, and her mother brought her and her younger sister to Italy where they were raised by their grandmother in Torre Pellice. The father, an eccentric character, theatrical and mysterious, stayed in Riga, where he later had a baby girl in a relationship with a German nurse who left them after the Nazi invasion of Latvia. They all died, him, the baby, and the others in the family, in the massacres of the Jews in the forests of Riga in November to December 1941. Concerning this giant hole, and the irresponsible and sentimental father, Jarre will return in two crucial books: I padri lontani (Distant Fathers), Einaudi 1987, and Ritorno in Lettonia (Return to Latvia), Einaudi 2003.
The first is an autobiography. But an autobiography in the style of Nabokov’s Speak, Memory. Or, with the structure of Ernaux’s The Years, but, as someone recently pointed out to me, it’s a predecessor in structure (the tight montage of separate images that compose an enormous organic frame). And in my opinion it should be read by anyone involved in nonfiction narrative today, in Italy—and also outside of it, but, as I discovered from Magris, elsewhere they already know it should be read. Jarre places the same detached, estranged and lightly ironic gaze on all things in her life: the minute tragedies of childhood, the war and the Resistance in which she assisted as a watchful spectator, motherhood and writing, work as a French teacher in Turin and the same city in its transformations through time. Time, precisely, is one of the themes that enervate and bind all the fragments, such as lack of belonging, of “homeland,” at times proudly pursued, at times more painful, at times simply noted as matter of fact. An unfamiliarity that she also feels with respect to the Waldensian world, which in part is hers: “There was no bond between me and that world, which remained outside me. No, the poor, rocky houses in shadow, the four pointed peaks, the woman with the high, clear voice marked by those r’s, were not related to me. Their history didn’t precede me, I hadn’t come from that.” (1)
I spent a summer in Turin with a botany book. At five in the afternoon I used to go out and along garden fences in the center and in Crocetta, I was walking in the public gardens and meanwhile recognizing the trees comparing them with the clues and the illustrations in the book. […] while walking by places, street after street, on the sidewalks dirty with dust, papers, melted ice cream, condoms, syringes, dog excrement, the street ended with becoming the place, the only one possible, indistinguishable from the other places, and the people and I with them on the sidewalk, indistinguishable among ourselves. […] Questionable telephone booths, exact copies of the time machines or spaceships of science fiction films, obvious precisely as telephone booths, bearing witness also to their daily necessity, the naturalness of similar transmigrations. This is the place without name, the same as other places and my time, the same time as others. I will not run away anymore.
Return to Latvia is the most celebrated and debated among Jarre’s books (but however out of print), that Alberto Cavaglion in Doppiozero correctly defines a rewriting of Distant Fathers. (2) Here, in fact, the by now aging Jarre returns to Latvia together with her son, for the first time since she left at ten years old. And she finally takes upon herself that repudiated father and his monstrous end, as well as that Jewish history to which she is otherwise estranged and otherwise indissolubly tied. It is a potent book, which explores the dizzying depths of guilt and repression with intransigence and disgust for emphasis that are a constant in Jarre’s prose. And it is still at once an anomalous text, that makes for example a very interesting use of documents, in the exact sense in which Danilo Kiš spoke about it in an interview that appeared in the collection Homo poeticus: “As far as I’m concerned, I personally believe in the document, in the confession, in the play of the spirit. One does not exist without the other. It is a kind of Holy Trinity.” This magical, skillful mix of writing is the perfect definition of Marina Jarre’s nonfiction.
Then there are the novels and the stories. Stealing the definition that Franzen uses for Alice Munro one could say with a certain exactitude that Jarre is a “detached provider of highly pleasurable private experiences.” (One speaks of the pleasure of the reader, naturally.) In effect, as much as her measure is the long novel, Jarre resembles in some respects both Munro and the first among all the providers of private experience: Chekhov. In her stories, in general, there are not big facts or bombastic events. They are small stories of common people; and as in Munro and Chekhov, the minor events of their individual existences assume an immense reach that reverberates for a long time in whoever reads, acquiring more and more intensity, finesse, and mystery with the passing of time, uniquely for the way in which they are told. I already spoke of Jarre’s precision, and this is the thin connection that unites her with the other two writers: the dry exactitude and lack of judgment with which she knows how to note her own feelings and those of her characters. Even the strangest, most profound, or incomprehensible; and those that arouse shame. There are many unspeakable feelings, obscenely natural, in Marina Jarre’s books, set in magnificent pages from which it’s difficult to extrapolate quotes that tell of their full beauty. As often happens with those truly amazing, hers is not an aphoristic writing: the true breath of the prose one finds in the fabric of the text, in the full architecture of the page or of the entire chapter.
At times the tiny stories of her characters intersect with History; this is the case of the delicious The Princess of the Old Moon, released by Einaudi in 1977, a mock heroic novel about a down and out family of Turinese communists told by the irresistible voice of the eleven- year- old son that has as a background the months preceding the divorce referendum of 1974 and is one of the few books that recounts (in a satirical but affectionate tone) the people that made that movement in those years. Or of the story of “The Photograph,” in Galambra, Four Stories with Ghosts (Bollati Boringhieri 1987), that begins from the slow and cold account of a conjugal vacation in a small imaginary city to transform into one of the most beautiful things ever written in narrative on the armed Italian struggle and its consequences.
And it is above all the case of A Light Foreign Accent, the first novel. Released in 1967 as Parallel Monument for a small publishing house, and then republished by Einaudi in 1972 with the new title and some parts rewritten, it has as the protagonist an ex-Waffen SS, Klaus Boehr, who participated in the mass killings in Eastern Europe and who after the war remade a life hidden as a Swiss professional in a large industrial Italian city—Turin, always Turin, ambiguous and two-faced like its secret inhabitant. As in Benevolent by Littell forty years later, it is Klaus himself who tells his life and his actions, for which, he admits candidly, he does not feel remorse, without knowing how to explain when that capacity failed him. How to define his story? Confession? Self-defense? Better: frozen aesthetic self-reworking, it alternates the present story of a group of young friends of Turin’s middle class that will end up intersecting with his story.
This counterpoint, that may seem only technical, contains in reality, like in a game of Chinese boxes, other nodes of articulated narrative, other passages, other questions. The moment arrives in which the short circuit could snap and the truth is unveiled; but that which could become a banal police breakthrough takes an unexpected detour, as always in Jarre. And she poses fundamental questions—the fiercest: is it really the circumstances that transform us into mechanized assassins, as Klaus insinuates in the attempt to unload on everyone his barrel of blood and brains? Despite some lengthy and some slightly aged passages, the book is alive with psychological detail, character portraits, dialogue, and irony. Perhaps it was too early to read the narrative voice of an unrepentant Nazi, perhaps the form was too “traditional” in a moment in which the neo-avant-garde dominated the scene, who knows.
Yet, does it not seem that there is in all of this a fatal progress? A ring soldered to another, up to the white lily, up to the Russian boy, up to the Czechoslovakian camp? Everything seems predetermined by an impeccable organization. All except the gesture of non-compliance, that did not come to mind to enact, the useless, grotesque gesture of pointing the pistol at the temple, renouncing understanding. “Died in camp, another takes his place.” If at a given moment it was an error, of choice or judgment, find it, sirs. I fail to find it and I do not even succeed to see who or what has mutilated me like this. Like an antediluvian monster, I have nothing more than stumps of something that served actions about which I know nothing. But I swear to you that I cannot find the point, or the moment or the person. Everything was closed ironically between the impassable walls of my fate. And of that summer evening I do not remember the name of the girl, but I remember the rustling of oats in the wind, near us; an immense subtle lunar rustle. How it is possible that I have erred more than others?
There is a last novel by Jarre which I want to speak about here, completely different from the preceding one. It was released by Einaudi in 1971 with a cover by Roy Lichtenstein and an ugly little title: In the Eyes of a Girl. And it was perhaps the most beautiful book by Marina Jarre. It tells a little story, once again: that of Maria Cristina, a girl of thirteen years caught in the moment in which she is becoming a person. The year is 1969; she lives in a modest family, with a father incapable of communicating, a sick mother and an older brother preoccupied with making revolution. Maria Cristina is considered stupid and so she considers herself. Her outlook on the world resembles that of the protagonist of Red Desert by Antonioni: a director close to Jarre in tone, style and story: it doesn’t surprise me, while I was doing research for this piece, to discover that he had proposed to her a project to make a film from her Journey to Nineveh. “There is something terrible in reality, and I don’t know what it is. And no one tells me about it”: the words of the character played by Monica Vitti apply also to Maria Cristina, who prefers things to people, easier to love, more understandable, less frightening. After all, the others have already assigned Maria Cristina, in that she is female, exclusively to doing. But her self-withdrawal interrupts itself when two events happen, two disappearances that force her to deal with the unpredictability of human life and the making of choices.
The plot is all here. Behind the facade of deceptive simplicity there are so many things: class, the stolidity of established power, the subordinate destiny of women, politics as an emotional screen, solitude between the members of the same family, death. But none of these elements ever becomes ideological; this is not an ideological novel or a moral tale. It is a coming of age novel of a singular character, Maria Cristina, who rises huge among the many and fascinating outsiders of Jarre’s books.
One can also love things. And she has loved the perfect chestnut, cooked through to its yellowish heart and enclosed in the striated silence of smoked odor and in this way she no longer loved her family gathered in grandma’s kitchen around the young uncle with the young wife. And perhaps, if she repeated the magic, she would no longer love Eliana and not even Roberto. Given that they did not love her and this made her tranquil but also made her feel bad. On the verge of falling asleep she put her hand outside the covers. Then she dreamt; she dreamed of getting up through the dark and from the dark choosing another hand to touch hers, and there was no one, neither mother, nor father, nor Eliana nor Roberto. It descended from the dark silent odor of smoke, raked by an unguided rake, and it was a warm and strong hand. She realized then that that hand emerging from the dark was certainly her own; sleeping she squeezed her left hand with her right, as if she had feared something would escape her in sleep.
The whole book happens through her viewpoint, bizarre, innocent but much more attentive to the nature of things and the facts which surround her, and the formal estrangemen functions to perfection. There are innumerable unforgettable scenes; where the always beautiful prose, smooth and severe, opens in those observations full of echoes of meaning of which Jarre is master. These tumultuous, unexpected diversions into the irrational, under the guise of an austere chronicle; these somersaults of violent emotion that arrive on a pendulum in the house of the rich, of a chestnut, of a visionary eye painted on the face of a little girl; it’s in all these things that the brilliance and beauty of this book resides. In the Eyes of a Girl still exists, reprinted many years ago by a small publishing house, Calypso. Perhaps it needs to return in a new guise to give it the place and attention it deserves.
I was at Marina Jarre’s funeral in July. One of her sons, I believe the one that accompanied her to Latvia, spoke of her remembering a scene described in Distant Fathers. After the parents' separation, she and her sister were hidden by their mother in a German castle and their father came to look for them, banging at the door for hours, but they, faithful to their mother, did not open it to him. Now, said the son, I hope that you are able to open that door and run to meet him. Many things were said. Someone read a passage from The Silence of Moscow (Il silenzio di Mosca), its ending, in reality. Inside there is an expression by Bonhoeffer (the “beloved earth of God”). Only later I thought: it’s right like this. The beginning, the end.
Names simplify themselves or disappear. The Sardinian sea that every morning, just out of bed, I alone contemplated from behind the large window of our living room will no longer have a name, it will be the sea and that will be enough. My place and my time on God’s dear earth will be in a poor courtyard, clear, fragrant with wood smoke. The remainder, beyond, I will continue to imagine.
(1) Marina Jarre, Distant Fathers, trans. Ann Goldstein, New Vessel Press, 2021.
(2) Return to Latvia is soon to be published in English translation by New Vessel Press.
Over four years I’ve been composing a sort of hybrid biography and memoir entitled The Bright Dream: A Writer’s Return to Italy. This is the second book I have composed with the Jewish Italian writer Primo Levi at its center. In this particular book I entwine his story of return to his home in Turin from Auschwitz through Poland, Russia, Central Europe, and, finally, to northern Italy in 1945. In part, I critically explore the development of his writing career as it was influenced by his deportation and internment at Auschwitz. Perhaps it is courageous or even folly to think through the emotional, and intellectual influences that his story has imprinted on me in teaching his work to college students, and even more risky to mingle my personal story of return to Italy after studying in Florence in college and to know Italy anew as an adult firmly in midlife while critically considering his written oeuvre.
Yet, I persist. I must write this book and I must travel to Italy to do so. Consequently, I have a renewed relationship with the Italian language. My study has intensified as I venture deeper into thinking, reading, and writing in Italian. These days I meet twice weekly with my language tutor; several months ago we started to translate The Bright Dream manuscript from English into Italian. Subsequently, I immersed myself in reading literature in Italian, both by English speaking and Italian writers. In the course of my reading, I have discovered books—among them I padri lontani (recently translated into English as Distant Fathers by Ann Goldstein) and Il silenzio di Mosca—both stunningly poetic, personal, and deeply social and political works by Marina Jarre, about whom novelist Marta Barone writes in her searching and beautiful article translated here. Barone, who wrote the introduction to the Italian reprint of I padri lontani (Bompiani 2021), writes how she discovered Jarre’s work in a pile of books on her mother’s desk (dal mucchio sulla scrivania di mia madre) and how Jarre’s writing compelled her and continued to absorb her complete attention.
Barone’s voice as a reader, which is also wonderfully the voice of a writer, woven with passages from Jarre’s various novels and children’s books, illumines the process of how a writer encounters another writer who may change her way of thinking and being in the world. Of course, I find in Barone’s relationship with Jarre’s writing echoes of my relationship to Levi’s writing and the life story that undergirds it. Ultimately, other writers may alter and transform our lives through the work they have left us. Further, I discovered that translation invites reading through one’s primary language(s) to the newer language. With the movement through languages, the brain enlarges. The labor of reading in another language and translating into and from that language can teach us to love the rudiments and nuances of a language, the new one, and deepen an understanding of our original language. We can meet and know the world in a voice that tells us something of the place we love, the serendipitous discoveries of quotidian life there, the way humans find writing company across time and space. Because Barone introduced me to Marina Jarre through her Italian eyes and sensibility, I wanted to read her critical thought on Jarre. Her article was originally entitled “A Turinese Writer,” and in speaking with Barone during the translation process she expressed to me a desire to share Jarre’s universality with readers. I’m thrilled to present Barone’s “A Writer for Our Times” to an English language readership.
Marina Jarre was Latvian and German-speaking and became to Turin one of the most original writers of the post-war period.
Marta Barone was born in Turin in 1987. She has published three books for children with Rizzoli and Mondadori and the novel Città Sommersa (Bompiani 2020). An editor, translator and teacher, she lives and works between Como and Milan.